
Dal silenzio della mia campagna, un piccolo salto quantico sulla consapevolezza di una natura indifferente.
La solita passeggiata quotidiana. Non c’è nessuno nei campi deserti. Provo a fare un percorso diverso, più lungo. Mi allontano da casa per raggiungere uno dei luoghi della mia adolescenza. Sul fiume ho fatto scampagnate, feste del primo maggio, falò e canzoni con gli amici.
Ma al fiume non si accede più. Il canneto e i rovi si sono presi l’unico passaggio. Peccato. Ci avrei ritrovato dei ricordi, probabilmente, tra i sassi stondati e il colore dell’acqua.
Nel tornare indietro accade poi l’inaspettato. È una campagna docile e addomesticata questa, eppure qualcosa è cambiato, nel vento, nei rumori adesso più vividi, che non riconosco più. L’assenza dell’uomo, sebbene per appena un mese, si fa sentire eccome.
Qualcosa è cambiato non tanto nell’ambiente in quanto ecosistema, ma nella sua percezione.
Un capriolo sbuca fuori all’improvviso. Ce ne sono di più adesso. Ci sono più serpenti, più uccelli. Oppure, semplicemente, si stanno riprendendo alcuni spazi.
Questa rinascita della natura dovrebbe essere confortante, eppure.
C’è come un senso di nuova solitudine in questa campagna che sembra avermi voltato le spalle, lasciandomi indietro. In questa natura che va avanti nonostante tutto, con fredda indifferenza, si insinua una ritrovata paura.
In questa calma che di bucolico non ha proprio niente.
La cosa buffa è che non è del tutto spiacevole. Non è male riconnettersi con un sentimento così antico.
Ecco quindi come un concetto assai banale sul piano razionale viene assorbito a un livello profondo di coscienza, e non è più la stessa cosa. Sentirlo non è come pensarlo o dirlo. Sentirlo è quasi comprenderlo. E il concetto è questo:
la natura non è una madre, non è tenuta a proteggerci. La natura semplicemente è, e noi siamo nella natura. Siamo solo una parte, sacrificabile per altro. Un’erba che può seccare per fare posto a un’altra.
Darsi tutta questa importanza è da sciocchi. Il Covid-19 è solo uno dei tanti schiaffi con cui torniamo per un attimo a confrontarci con la nostra mortalità. Una mortalità che abbiamo smesso di accettare.
Come se imparare a morire fosse annullare ogni paura, ogni separazione. Senza la separazione non può esserci solitudine, infatti.
La paura è un meccanismo, non possiamo annullarlo. La morte, idem. Possiamo però rieducarci al loro utilizzo.
Utilizzare la paura, utilizzare la morte.
Così come si utilizza una tecnologia. E qui rientro un po’ nelle tematiche che affronto su questo blog, anche per rassicurare il lettore che non ho dato completamente di matto.
Si parla molto di tecnologia in questi tempi; si parla di molte tecnologie. Quelle giuste per questo percorso, io credo, potrebbero educarci alla non separazione, all’utilizzo della paura, della solitudine e della nostra mortalità.
Tecnologie filosofiche magari.
Realtà virtuali progettate per un training del pensiero e del nostro corretto assetto di esseri umani.
Tecnologie con cui simulare mondi possibili, e in quei mondi simulare i nostri comportamenti, le nostre reazioni.
Per farsi trovare un po’ più preparati la prossima volta. Perché è chiaro che c’è sempre una prossima volta, e che con la paura, quella vera, quella ancestrale, torniamo periodicamente a fare i conti.