
L’ultimo disco dei Tool è un esempio di immersività senza l’utilizzo di tecnologie immersive.
Per chi non li conoscesse, i Tool sono una band heavy metal sperimentale statunitense, che a partire dagli anni ’90 ha creato un vero e proprio culto, riunendo una delle fanbase più solide e devote dai tempi di Elvis o dei Beatles. Lo ha fatto molto lontano dalle facilonerie dell’universo pop e dal suo ampio mercato, ma anzi con i piedi ben saldi in quella enorme nicchia che è la musica “alternativa”.
Eppure, nel momento in cui scrivo, il quartetto è balzato primo in classifica vendite superando la reginetta Taylor Swift. Come hanno fatto?
Sopravvissuti egregiamente alla disgregazione dell’industria discografica tradizionale, hanno puntato tutto su qualità, scarsità e immaginario.
Qualità, perché suonano e scrivono bene. Molto bene.
Scarsità, perché hanno pubblicato poco, rispetto agli anni di attività: basti considerare che l’ultimo album, oggetto di questo articolo, esce dopo ben 13 anni di silenzio (o meditazione che dir si voglia).
Immaginario, perché hanno sempre affiancato alla musica e ai testi un corredo video e grafico molto distintivo, costruendo un’identità mutante ed estremamente personale.
Dunque, a questo punto ti chiederai perché stiamo parlando di musica in un blog su realtà aumentata e virtuale.
Te lo dico subito.
Fear Inoculum, uscito pochi giorni fa (settembre 2019), nel suo formato fisico è al momento disponibile solo in un’edizione limitata assai particolare. Un cofanetto che, come indicato sulla cover, contiene “an immersive visual experience“.
Di che cosa si tratta?
Come si può vedere dall’immagine in copertina, il cd è solo una parte del packaging che si sviluppa su tre facciate interne, con al centro un piccolo schermo da 4 pollici, dotato di due diffusori (e di un cavo usb per ricaricare la batteria).
A prima vista potrebbe sembrare l’ennesima soluzione creativa e bizzara della band, la quale, con l’ultimo album (10.000 Days) aveva esplorato la stereoscopia includendo nella cover del disco due lenti per visualizzare il libretto completamente in 3D.
Ma perché mettere uno schermo LCD dentro un album, nel 2019, quando ogni contenuto viaggia online?
In effetti è una scelta che ha dell’assurdo, e dunque azzeccata in quanto coerente con il linguaggio cui la band ha abituato i propri fan; un linguaggio fatto di continui rimandi tra universo sonoro e universo immaginifico, e che qui raggiunge l’utente in un luogo inedito, come aprire una finestra sul pavimento per dire “guarda giù, ancora più giù”.
In secondo luogo, lo schermo ospita un video esclusivo, cioè reperibile solo lì (fino a prova contraria), o che comunque svolge un ruolo fortemente legato alla componete fisica del disco, all’oggetto come feticcio ma anche come portale: un “viaggio” in computer grafica inquietante, maestoso, esoterico e metafisico. Questo contenuto non è un videoclip; come sottofondo non c’è neanche un vero e proprio brano, ma un “ambiente” sonoro anch’esso non reperibile in digitale.
Altro fattore determinante: in questo modo l’esperienza del video incorporato precede quasi obbligatoriamente quella dell’ascolto. Il video, infatti, parte in auto-play non appena si apre il cofanetto, attirando la nostra attenzione prima di ogni altro elemento, cd compreso. Ci introduce nel mondo della band, ma soprattutto nel mondo di questo specifico album. Crea nel nostro cervello, e attraverso i nostri sensi, un’ambientazione nella quale la musica e i testi andranno ad incastonarsi, completando l’esperienza.
Ci fa immergere, senza una vera e propria immersività tecnologica. Ci cattura.
C’è qualcosa di magnetico e subliminale, costruito ad arte, nell’incontro tra visual e suono.
E dunque, possiamo con assoluta certezza attribuire a Fear Inoculum lo status di “opera immersiva”, pur in assenza di visori, di app, di video 360, e al di fuori delle usuali categorie di realtà aumentata, virtuale, estesa e quant’altro.
Il lavoro dei Tool in questo caso è molto più psicologico che tecnologico. È ibrido e in un certo senso retro-futuristico. Ma la finalità è quella che si riconosce tanto alle opere d’arte e di fantasia, quanto ai migliori progetti immersivi: far entrare l’utente in un mondo ricco di immagini, suoni, significati e messaggi. Una dimensione dalla quale si possa captare, percepire o apprendere qualcosa che la realtà quotidiana non riesce a svelare o a far emergere.
Una lezione di comunicazione, a mio modo di vedere, per tutti coloro che talvolta “si perdono” dietro alle prestazioni di software e visori, quando a volte basta uno schermo da 4 pollici. Perché la matrice dell’immersività è sostanzialmente un’accurata e appassionante narrazione, con l’utente al centro.