
Burgher King istiga i suoi utenti a inquadrare la pubblicità di diversi competitor per dargli fuoco con la realtà aumentata.
Sembra solo guerrilla marketing, ma dietro questo colpo di genio c’è qualcosa di più. È stato preso uno strumento (la realtà aumentata), è stato studiato, ed è stata ideata una campagna nativa per quella tecnologia. Boom! Da qui, l’estrema efficacia e viralità del progetto.
Ma qual è la sua anatomia?
Tanto per cominciare la semplicità.
1. Inquadra
2. Dai fuoco
3. Ottieni una ricompensa.
Gia perché se bruci gli altri ottieni un panino omaggio.
Un gesto mica da poco. Senza tirare in ballo persuasione e messaggi subliminali, è abbastanza chiaro che nella testa dell’utente, a forza di bruciare McDonald’s per vincere Burgher King qualcosa succede. E non a vantaggio del brand carbonizzato, è ovvio.
Oltre a questo, si mette in campo anche l’espediente della caccia al tesoro, giocando off-line alla ricerca di pubblicità da sacrificare in nome del perverso mandante, che appunto ci ripagherà saziando la nostra fame di junk food.
Insomma, una macchina semplice quanto perfetta. Che, posso sbilanciarmi, quanto a sviluppo deve essere costata molto poco rispetto all’efficacia.
Che cosa possono imparare i brand da questo caso?
Per prima cosa, che il progetto creativo e lo studio della tecnologia in riferimento al prodotto è un passaggio obbligato. Lo ripeto spesso: la realtà aumentata non funziona in quanto tale, solo per essere qualcosa di relativamente nuovo. Per sfruttare a pieno una tecnologia, un mezzo, bisogna pensare in nativo, dal suo interno. È molto rischioso fare copia e incolla di un’idea che nasce su un altro media o supporto.
L’altro aspetto è un cambio radicale di prospettiva che forse non è così evidente in superficie. Grazie a questo tipo di advertising si può impattare sulla copia di un oggetto, di un marchio, di un simbolo, deturpandolo o distruggendolo, senza ricorrere ad atti vandalici. Guardate che non è poco.
Cose simili stanno già succedendo nel mondo dell’arte. Si va in pratica a distruggere ciò che un oggetto rappresenta, innestando la propria idea su un’altra idea, senza sporcarsi le mani.
Qualcuno potrebbe obiettare che si tratti di un atteggiamento scorretto, ma io credo che, se il contenuto non viola nessun principio etico o morale, si tratti invece di una forma molto intelligente di comunicazione.
In ultimo, tutto ciò va finalmente a vantaggio dell’utente/consumatore. Tra le tante forme di interruption marketing, qui si pone il diretto interlocutore nel ruolo di protagonista, con un ruolo attivo e divertente.