
Come realtà aumentata e virtuale utilizzano un maggior livello tecnologico per risultare più “naturali”
Uscendo dai confini del monitor per espandersi tutto intorno all’utente, le tecnologie immersive sembrano puntare a un tipo di usabilità più analogico, intuitivo, che in alcuni casi sembra riportare all’era “pre-internet” il nostro rapporto con lo strumento.
Ad esempio scompaiono tastiera e mouse, e per dare un comando arrivano movimenti delle mani e tracciamento oculare. Torniamo a sfogliare, a muovere, a interagire nello spazio e ad osservare. Solo che sfogliamo un contenuto digitale e il movimento dei nostri occhi serve ad attivare un azione. Se lo raccontassimo a un qualunque passante di 30 o 40 anni fa ci prenderebbe per matti, o penserebbe che stessimo parlando di magia o telecinesi.
Con il progredire della tecnologia si tende a un recupero di movimenti più naturali per interagire con contenuti sempre più pertinenti e contestuali rispetto al luogo e al momento dell’utilizzo. È così che lo strumento si fonde sempre di più con il corpo e con l’ambiente che lo accoglie, facendo sembrare obsoleto il sovra utilizzo delle dita e la estrema focalizzazione dello sguardo su schermi e testi molto piccoli.
Sembra un paradosso: la tecnologia nella sua evoluzione tende a superare se stessa per assomigliare all’uomo che l’ha creata.
In realtà il limite della tecnologia è sempre stato la sua praticità, trasparenza e indossabilità. Ed è in questa direzione che sta procedendo per progredire ulteriormente.
Le stesse considerazioni valgono per la progettazione e lavorazione di esperienze di realtà aumentata e soprattutto virtuale. Ci si aspetterebbero complesse interfacce di lavoro, e invece anche qui si stanno cercando tecniche molto intuitive.
Ad esempio c’è una particolare tecnica di progettazione per la realtà virtuale che non utilizza neanche un software: il brownboxing.
La brownbox è la semplice scatola di cartone per imballaggi, ed è appunto il protagonista di questa metodologia per creare prototipi e fare testing di complesse scene e giochi in realtà virtuale.
Stiamo parlando di una delle frontiere più avanzate e complesse dell’arte digitale e di un metodo di progettazione della stessa che esclude completamente la tecnologia dal processo e ci riporta al teatro, con le sue scenografie di cartapesta.
Ma perché?
Perché è semplice ed efficace, e rappresenta probabilmente il metodo con il miglior costo/beneficio per progettare e validare un’esperienza utente in VR.
La realtà virtuale infatti si sviluppa su 3 dimensioni. L’utente può esplorare, camminare, voltarsi, chinarsi. La percezione dello spazio, degli oggetti, le proporzioni e le distanze giocano un ruolo cruciale nell’immedesimazione e nella fluidità.
L’approssimazione è molto meno tollerata rispetto a un’area di gioco 2D e i codici linguistici sono sempre meno convenzionali (le combinazioni di tasti su un joypad o su una tastiera) e sempre più umane (compiere il gesto che corrisponde a un’azione).
Più ci si avvicina alla simulazione del reale, più le aspettative di realismo salgono.
Ecco che le scenografie con cui si progetta prima di andare a sviluppare sui software 3D diventano dei veri e propri set teatrali, spesso arricchiti con rudimentali meccanismi per simulare il comportamento di alcuni oggetti (interruttori, luci, etc.).
C’è poi un vantaggio molto semplice nella progettazione analogica.
Normalmente, per spostare un tavolo in un progetto 3D si deve chiedere al programmatore di accendere il pc, aprire il software, cambiare le coordinate dell’oggetto-tavolo, rianalizzare la scena, etc.
Nel brownboxing basta prendere il tavolo e spostarlo.
Photo by Daniel Cano